Storie ordinarie di malasanità, il nuovo progetto editoriale di Nicola Todeschini
Avv. Nicola Todeschini Malasanità, Riparazione dei torti
Non contro qualcuno, ma in favore di una rinnovata e consapevole alleanza terapeutica e dei diritti del paziente.
Del resto per tutelare un diritto e promuovere buone pratiche, studiare i rimedi per il danno arrecato da chi non rispetta regole di conoscenza e prudenza non è necessario essere contro qualcuno, contro qualcosa. Solo una logica bieca e paternalista ha la necessità d’individuare sempre un nemico, io preferisco un amico: il diritto alla riparazione dei torti.
Dalla tesi di laurea con il compianto Prof. Gabrielli a Trieste non ho mai smesso di ricercare, approfondire, ascoltare, poi ho incontrato il Prof. Paolo Cendon e contribuito a Persona e Danno, la rivista dei diritti delle persone.
Quante storie mi avete raccontato, quanto dolore, speranze, storie di abissi e rinascite.
Ogni delusione, aspettativa di giustizia, mi hanno accompagnato giorno e notte, ho tentato ad un tratto di allontanarle, di vestire panni -non miei- che potessero tenerle lontane, ma non ci sono riuscito perché l’unico modo che conosco per difendere un diritto è quello di viverlo intensamente; non è un merito, ma un bisogno, quindi non attendo applausi ma rispetto.
Da questo interesse profondo per la vita dei diritti del paziente, originata anche da un fatto di responsabilità medica che mi vide vittima, ma mai denunciato, è nata una professione orientata esclusivamente alla riparazione dei torti. La responsabilità è diventata un tempio da visitare con rispetto ma da conoscere con devozione, perché esplorarne il significato, gli strumenti, contrastarne gli abusi e le consuetudini, per me significava essere pronto a fare la mia parte.
Non mi sono mai accontentato di lavorare sull’errore altrui, come spesso fa il professionista che si occupa di responsabilità civile in genere, volevo che l’argomento diventasse mio, che lo studio continuo potesse dare origine a nuovi percorsi, rispondere alle domande di tutela che vedevo denigrate, abbandonate.
Già all’università, scrivendo la tesi di laurea, discutevo di rivoluzione copernicana necessaria per ribaltare l’equilibrio fittizio e costituzionalmente controverso che esisteva tra medico e paziente. Lo studio appassionato del tema del consenso informato mi ha portato a intravedere una strada alternativa, costituzionalmente protetta, che consentisse al paziente di interpretare il ruolo di protagonista della cura e, allo stesso tempo, al medico di valorizzare il ruolo di prezioso consulente.
Quante battaglie però per ottenere i risultati odierni.
I miei studi all’inizio apparivano pionieristici ai pratici del diritto, ed interessavano al più i teorici. La professione da subito mi ha fatto intendere che le tesi dottrinali ispirate nascevano in contesti assai lontani dalla pratica, spesso accademici, e al più potevano consentire di scaldare il cuore alla platea, raramente avrebbero potuto divenire strumento di concreta difesa.
Non potevo accontentarmi nemmeno di questo risultato.
Volevo fortemente che lo studio diventasse strumento di difesa, che la voce del diritto del paziente potesse essere forte, lineare, scevra da ambizione scenografica e fortemente ancorata alla regole. Certo, per farlo era necessario abbattere consuetudini, avere una sola parola, non indulgere alla difesa degli uni e degli altri dimenticando, nel salto di barricata, i diritti, il diritto. Pretendevo, e in questo senso ero definito un sognatore, che la coerenza dovesse dominare anche le scelte del difensore, che non fosse possibile scrivere pagine ispirate sulla tutela dei diritti e poi negarle per sottomettersi alle necessità del successivo cliente.
Una linea, un fine, bisogno di coerenza.
Ma anche questa scelta dava e da ancor oggi fastidio perché qualcuno erroneamente la ritiene figlia di un’utopia, di donchisciottesca memoria, contenete un giudizio di merito negativo per l’idea, assai diffusa, che un difensore possa oggi difendere il malato e domani il medico dando della regola una lettura anche diametralmente opposta e non coerente. Esiste invece la possibilità concreta d’individuare modalità d’interpretazione delle regole che assecondino esigenze di tutela, del paziente, e di rispetto del ruolo del medico.
Ma la regola esisteva anche allora, mancavano però le sensibilità per interpretarla correttamente.
Come per il danno esistenziale, alla cui affermazione mi sono impegnato grazie al mentore Prof. Paolo Cendon e la rivista Persona e Danno, nella quale mi pregio di scrivere, così per l’alleanza terapeutica, per la selezione dei pregiudizi, per l’affermazione dell’effettiva tutela del diritto del paziente all’autodeterminazione consapevole la strada da tracciare aveva bisogno di coerenza, approfondimento, ascolto delle storie di violazione dei diritti, d’ispirazione, oserei dire.
Per queste ragioni lo studio del rapporto medico paziente iniziato con la tesi di laurea non è mai cessato, anzi nel tempo è cresciuto, maturato, ha incontrato le necessità della pratica, le ambizioni della tutela, e proprio nella ricerca della coerenza tra principi e tutela pratica che i miei ultimi vent’anni sono volati via.
Ora, dopo aver scritto saggi, libri per addetti ai lavori mettendo alla prova le mie tesi, sento il bisogno di raccontare le storie piene di umanità che sono state raccontate a me, di spendere le lacrime di chi ha sofferto in un percorso, se volete, catartico, di purificazione che dimostri come teoria e pratica possono trovare conforto, coerente, nell’ispirazione, nell’ascolto.
Ho deciso di intitolare il mio nuovo lavoro “Storie ordinarie di malasanità“, vi condurrò per mano attraverso la vita di queste persone, facendovi scoprire il coraggio necessario per reagire, i malcostumi liquidatori, l’atteggiamento a volte inqualificabile di chi gestisce i sinistri, le ingiustizie anche giudiziarie, seppur rare, il bisogno viscerale di giustizia che ci ha accompagnato sino al risultato finale.
Ma anche questa ricerca ha un prezzo, che però sono fiero di scontare.