Se ti insulto su Facebook non vale
Avv. Nicola Todeschini Diritto di internet, Riparazione dei torti
Tizio (l’imbecille): Sei un cretino!
Caio: Come ti permetti? Ti denuncio per diffamazione!
Tizio (l’imbecille): Ma che cosa vuoi denunciare, su Facebook scrivo quello che mi pare!
No, non è così, non è mai stato così, ma a qualcuno è piaciuto pensarlo: non solo agli stolti che ignorano le regole di buona educazione, ed ai quali è sufficiente rammentare che la critica non è insulto, ma pure a quelli, apparentemente istruiti, che speravano di aver colonizzato un territorio vergine, anche di regole.
In verità Facebook è sempre stato, invece, terreno periglioso per i diffamatori, volgari, maleducati, proprio per la sua potenziale funzione di amplificatore degli insulti. Lo era già il web prima che i social network spopolassero, e tanti sono incappati nelle maglie della legge, sempre purtroppo troppo larghe, e hanno avuto ciò che si meritavano.
Poi ci sono i distratti, che credono che maneggiare la tastiera, del pc o del cellulare, insultando chi non li può vedere ed affrontare fisicamente, non solo sia meno che vile, ma soprattutto insensibile alle regole penali. V’è da ammettere che la percezione dello scritto, contrariamente al messaggio verbale, impedisce di cogliere a volte l’ironia, il modo di dire, ma al di la del soccorso che le “faccine” possono garantire in tali frangenti, rimane la contestazione di fondo: insultare e diffamare non si può mai, tanto meno sfruttando mezzi per far conoscere ad un numero illimitato di persone il contenuto dell’affronto.
La recente sentenza a della Cassazione che non innova nulla ma applica buonsenso e regole comuni ha fatto storcere il naso a qualcuno, addirittura facendogli invocare la libertà di stampa, il bavaglio che misteriosi signori delle tenebre vorrebbero imporre alla libertà di manifestare il pensiero così da poterla fare franca. Come se per denunciare un raggiro, una pratica commerciale scorretta, un abuso di potere, fosse necessario macchiarsi di un reato; come se per denunciare un reato fosse inevitabile ingiuriare, diffamare.
Come se non esistesse un registro, nella nostra pur splendida lingua, in grado di indicare come criticare, anche severamente, una condotta, senza scadere nella volgarità, nel lazzo, nell’ingiuria.
Agli imbecilli non serve, dirà qualcuno, una simile leziosa prospettazione dell’eleganza d’espressione, ma pure gli imbecilli sono soggetti alle regole, alle legge. Ma nemmeno si tratta di fanatico inseguimento di una regola per ottenerne l’affannosa applicazione da perfetto burocrate del diritto, perché è sufficiente la lezione che all’imbecille ha dato un genitore, un insegnante, un passante alla fermata del semaforo, per responsabilizzarlo in ordine alla necessità di comportarsi in modo civile, e la regola penale non fa che rendere punibile la condotta non solo con il ceffone, forse mai preso, dall’adulto, ma pure con una ripassata nelle patrie galere ed un generoso prelievo dal conto corrente.
Del resto chi confonde la libertà di manifestazione del pensiero con l’insulto e la diffamazione, emulo dei tristi teatrini della politica e dei talk show moderni, ammette solo la propria pervicace ignoranza ed incapacità di esprimersi correttamente, a dimostrazione che la rete è democratica, almeno, apparentemente con i contenuti, non con gli imbecilli.
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